Convivenza e prestazione di lavoro a titolo oneroso o gratuito

Con una recente sentenza pubblicata ad aprile la Corte di Cassazione è tornata sull’argomento dell’onerosità o gratuità del rapporto di lavoro subordinato in caso di convivenza di datore e lavoratore.

Secondo il datore di lavoro non essendo provato il requisito della eterodirezione, requisito fondamentale in un rapporto di lavoro subordinato, ne deriva la presunzione di gratuità dell’attività prestata in ragione del rapporto sentimentale.

Di diverso avviso è la Corte: ‘la giurisprudenza ha chiarito che ogni attività oggettivamente configurabile come prestazione di lavoro subordinato si presume effettuata a titolo oneroso, ma può essere ricondotta ad un rapporto diverso (istituito affectionis vel benevolentiae causa) caratterizzato dalla gratuità della prestazione, ove risulti dimostrata la sussistenza della finalità di solidarietà in luogo di quella lucrativa’.

Nel caso in esame, invece, le prove fornite dalla lavoratrice escludevano in modo chiaro la gratuità della prestazione: la sua presenza presso il negozio del compagno era quotidiana e costante, osservava scrupolosamente l’orario di apertura dello stesso, aveva rapporti costanti con clienti e fornitori, aveva e impiegava specifiche competenze professionali, si occupava della gestione amministrativa e contabile del negozio.

Secondo la Corte il carattere ‘assorbente’ delle energie dedicate e l’intensità tale da precludere lo svolgimento di autonoma attività lavorativa provano la non gratuità dell’attività svolta.

Quanto al requisito della eterodirezione, la cui mancanza solitamente esclude la natura subordinata del rapporto di lavoro e conseguentemente escluderebbe l’onerosità della prestazione lavorativa, nel contesto di rapporti sentimentali e di convivenza tale requisito si esprime in forma attenuata, senza necessità che esso si estrinsechi in ordini specifici e dettagliati, essendo viceversa sufficiente il pieno e stabile inserimento nell’organizzazione aziendale del convivente e l’assenza di autonomia gestionale come accertato dal giudice di merito.

Periodo di guardia presso il datore di lavoro e retribuzione corrisposta

La Corte di Cassazione, con sentenza del 22 novembre 2023, ha affrontato il tema del periodo di guardia presso il datore di lavoro e della relativa retribuzione dovuta ai lavoratori.

Il ricorso era stato presentato da alcuni Vigili del Fuoco e riguardava le ore notturne che trascorrevano in un alloggio di servizio presso il datore di lavoro, a disposizione per eventuali interventi.

In particolare contestavano che tali ore lavorative non venissero retribuite sempre come orario straordinario ma secondo due diverse fattispecie e cioè: come semplice indennità di pernottamento qualora non si fosse verificato alcun intervento da parte loro e come lavoro straordinario con prestazione aggiuntiva solo in caso, molto raro, di effettivo intervento per incendio. 

A sostegno delle loro ragioni citavano la direttiva comunitaria 2003/88/CE che stabilisce una netta e inequivocabile dicotomia tra le nozioni di ‘orario di lavoro’ e ‘periodo di riposo’

Di diverso avviso la Corte che ricorda come la direttiva citata ha certamente l’obiettivo di stabilire ‘prescrizioni minime destinate a migliorare le condizioni di vita e lavoro dei dipendenti… sicchè le ore di guardia devono essere considerate come orario di lavoro’ ma la stessa direttiva nulla dice circa la retribuzione che rimane disciplinata dalla normativa e dal contratto collettivo nazionale.

Nella fattispecie l’accordo collettivo nazionale disciplina la retribuzione dovuta in maniera differente se nel periodo di guardia non viene svolto alcun lavoro effettivo o se nel periodo di guardia vengono realmente effettuate prestazioni di lavoro.

In mancanza di un lavoro effettivo pertanto il riconoscimento di una indennità di pernottamento – e non della retribuzione per lavoro straordinario come chiesto dai ricorrenti – rispetta sia la normativa comunitaria che nazionale.

Collaboratrice domestica senza regolarizzazione del rapporto di lavoro, valutazioni in merito a TFR, corrispettivo per ferie e principio dell’assorbimento

A seguito del licenziamento, dopo oltre vent’anni di lavoro come collaboratrice domestica, una lavoratrice – difesa dalla studio – ricorreva avanti al Tribunale di Venezia per il riconoscimento degli importi a lei dovuti per tredicesima mensilità, ferie, permessi e TFR.

Tali importi non erano mai stati pagati alla lavoratrice in quanto l’attività  di pulizia e riassetto della casa si era sempre svolta senza regolarizzazione.

A fronte di ciò i datori di lavoro sostenevano che nulla era dovuto poichè non si era in presenza di lavoro subordinato ma di una prestazione d’opera senza vincoli di orario nè obblighi di prestazione e poichè il corrispettivo corrisposto era maggiore di quello stabilito dal CCNL.

La Giudice, pur ammettendo che l’attività lavorativa della ricorrente può essere svolta con modalità proprie sia della subordinazione che del lavoro autonomo, ha riconosciuto numerose circostanze che, nella fattispecie, provano la subordinazione: l’assenza di imprenditorialità nell’attività svolta, l’utilizzo di strumenti di lavoro propri del datore di lavoro, un compenso parametrato alla durata della prestazione svolta e corrisposto con cadenza regolare, l’espletamento dell’attività lavorativa con cadenza regolare e continuativa per circa 20 anni.

Una volta accertata la natura subordinata del rapporto, la Giudice ha accolto la tesi dello studio, ovvero che la mancata regolarizzazione del rapporto di lavoro non esimeva i datori di lavoro dal corrispondere alla collaboratrice domestica il corrispettivo per le ferie e, alla cessazione del rapporto di lavoro, il TFR, poste che non possono essere assorbite da quanto corrisposto in costanza di rapporto.

Infine la Giudice ha accolto anche la richiesta di condanna generica al risarcimento del danno da mancata contribuzione, essendo provato non solo il mancato pagamento delle poste sopra indicate ma anche l’omesso pagamento dei contributi.

Non rileva infatti che al momento attuale parte della contribuzione sia prescritta, in quanto l’azione di condanna generica può essere esercitata prima del raggiungimento dell’età pensionabile e del compimento della prescrizione del diritto ai contributi, come avvenuto nel caso in esame.

L’Accademia della Crusca risponde al quesito della Cassazione sulla parità di genere negli atti giudiziari

L’Accademia della Crusca ha pubblicato integralmente sul suo sito la risposta a un quesito riguardante la parità di genere nella scrittura degli atti giudiziari.

La questione, molto attuale e molto sentita, è stata posta dal Comitato Pari opportunità della Corte di Cassazione.

Le indicazioni pratiche fornite dagli esperti interessano anche gli avvocati e consistono in quattro semplici regole.

1. Evitare le reduplicazioni retoriche

‘In base al principio della concisione ai quali si ispira la revisione generale attualmente in corso del linguaggio giuridico, sono da limitare il più possibile riferimenti raddoppiati ai due generi. Intendiamo riferirci al tipo “lavoratori e lavoratrici, cittadini e cittadine, impiegati e impiegate” e simili. Per evitare questo allungamento della frase si possono scegliere altre forme neutre o generiche, per esempio sostituendo persona a uomo, il personale a i dipendenti ecc. Quando questo non sia possibile, il maschile plurale “inclusivo” (a differenza del singolare) risulta comunque accettabile’.

2. Uso dell’articolo con i cognomi di donne

‘Nell’uso generale, non solo in quello giuridico, l’omissione dell’articolo determinativo di fronte al cognome si è negli ultimi anni particolarmente diffusa, non solo nel femminile, ma anche nel maschile, che lo ammetteva, nello standard, nel caso di personaggi celebri del passato (il Manzoni, il Leopardi ecc.). Oggi è considerato discriminatorio e offensivo non solo per il femminile, ma anche per il maschile. Non entriamo nelle ragioni di questa opinione, che riteniamo scarsamente fondata. Tuttavia, per quanto estemporanea e priva di motivazioni fondate, l’opinione si è diffusa nel sentimento comune, per cui il linguaggio pubblico ne deve tener conto’.

3. Esclusione dei segni eterodossi e conservazione del maschile non marcato per indicare le cariche, quando non siano connesse al nome di chi le ricopre

‘La lingua è prima di tutto parlata, anzi il parlato gode di una priorità agli occhi di molti linguisti, e ad esso la scrittura deve corrispondere il più possibile. Inoltre il rapporto tra scrittura e parola è fissato da una tradizione consolidata nei secoli, che non può essere infranta a piacere. È da escludere nella lingua giuridica l’uso di segni grafici che non abbiano una corrispondenza nel parlato, introdotti artificiosamente per decisione minoritaria di singoli gruppi, per quanto ben intenzionati. Va dunque escluso tassativamente l’asterisco al posto delle desinenze dotate di valore morfologico («Car* amic*, tutt* quell* che riceveranno questo messaggio…»). Lo stesso vale per lo scevà o schwa, l’ǝ dell’alfabeto fonetico internazionale che rappresenta la vocale centrale propria di molte lingue, non presente in italiano…. La lingua giuridica non è sede adatta per sperimentazioni innovative minoritarie che porterebbero alla disomogeneità e all’idioletto. In una lingua come l’italiano, che ha due generi grammaticali, il maschile e il femminile, lo strumento migliore per cui si sentano rappresentati tutti i generi e gli orientamenti continua a essere il maschile plurale non marcato, purché si abbia la consapevolezza di quello che effettivamente è: un modo di includere e non di prevaricare’.

4. Uso largo e senza esitazioni dei nomi di cariche e professioni volte al femminile.

Si deve far ricorso in modo sempre più esteso ai nomi di professione declinati al femminile. Questi nomi possono essere ricavati con l’applicazione delle normali regole di grammatica (ingegnere > ingegnera, il presidente > la presidente…)’

Per agevolare tale uso, a chiusura della risposta al quesito, l’Accademia  riepiloga le regole di grammatica che orientano correttamente la declinazione al femminile dei nomi.

Ecco le indicazioni in proposito.

In italiano esistono diverse classi di nomi:

1) i nomi terminanti al maschile in -o hanno il femminile in -a: magistrato/magistrata; prefetto/prefetta; avvocato/avvocata; segretario/segretaria, segretario generale / segretaria generale; delegato/delegata; perito/perita; architetto/architetta; medico/medica; chirurgo/chirurga; maresciallo/marescialla; capitano/capitana; colonnello/colonnella.

2) i nomi terminanti in -e non suffissati (quindi per i nomi terminanti in -tore e -sore si veda più avanti) sono ambigenere, cioè possono essere sia maschili che femminili e affidano l’indicazione del genere all’articolo (e stabiliscono l’accordo di altri elementi: aggettivi, participi…): il preside / la preside; il presidente / la presidente; il docente / la docente; il testimone / la testimone; il giudice / la giudice; il sottufficiale / la sottufficiale; il tenente / la tenente; il maggiore / la maggiore; ess. con aggettivo: il consulente tecnico / la consulente tecnica; il giudice istruttore / la giudice istruttrice, NON la giudice istruttore. Fanno eccezione forme ormai entrate nello standard come studente/studentessa (per professore/professoressa, vedi più avanti).

3) i nomi suffissati:

3.1) i nomi terminanti in -iere: il suffisso -iere (pl. -ieri) al maschile, è al femminile -iera, (pl. -iere); ess: cavaliere (cavalieri) / cavaliera (cavaliere); cancelliere (cancellieri) / cancelliera (cancelliere); usciere (uscieri) / usciera (usciere), brigadiere (brigadieri) / brigadiera (brigadiere); nel caso di titoli onorifici come cavaliere del lavoro e commendatore va considerato che finora sono rimasti al maschile anche quando assegnati a donne;

3.2) i nomi o aggettivi terminanti in -a e in -ista: al singolare sono ambigenere, mentre al plurale danno al maschile -i e -isti, al femminile -e e -iste; ess: il/la collega, ma i colleghi / le colleghe; il pilota / la pilota, ma i piloti / le pilote; l’avvocato penalista / l’avvocata penalista, ma gli avvocati penalisti / le avvocate penaliste; l’avvocato civilista / l’avvocata civilista ma gli avvocati civilisti / le avvocate civiliste; fa eccezione poeta/poetessa:

3.3) i nomi terminanti in -tore: il suffisso -tore (pl. -tori) al maschile, è normalmente al femminile -trice (pl. -trici); ess: tutore/tutrice; rettore/rettrice; direttore/direttrice; ambasciatore/ambasciatrice; procuratore/procuratrice; istruttore/istruttrice; uditore giudiziario / uditrice giudiziaria;

3.3.1) eccezioni: hanno il femminile in -tora (pl. -tore) pretore/pretora; questore/ questora; e il femminile in -essa (pl. -esse) dottore/dottoressa;

3.4) nomi e aggettivi terminanti in -sore:   il suffisso -sore (pl. -sori) al maschile, è al femminile -sora (pl. -sore); ess: assessore/assessora; difensore/difensora; estensore/estensora; revisore/revisora; supervisore/supervisora; fanno eccezione femminili ormai acclimatati come professore/professoressa.

3.5) nomi e aggettivi terminanti in -one (pl. -oni): hanno normalmente i femminili in -ona (pl. -one): commilitone/commilitona; fa eccezione campione/campionessa.

4) nomi composti:

4.1) composti con vice-, pro-, sotto- e 4.2) sintagmi con vicario, sostituto, aiuto: conta il genere della persona che deve portare l’appellativo: se è donna andrà al femminile secondo le regole del sostantivo indicante il ruolo, se è uomo andrà al maschile, senza considerare il genere della persona di cui è vice, vicaria/vicario, sostituta/sostituto; ess. Prosindaco (anche se il sindaco è donna) / prosindaca (anche se il sindaco è un uomo); vicesindaco/vicesindaca; sottoprefetto/sottoprefetta; sostituto procuratore / sostituta procuratrice; prorettore vicario / prorettrice vicaria; aiuto cuoco / aiuto cuoca.

5) Pubblico Ministero: Pubblica Ministera.

Si manterranno senza problemi i nomi di professione grammaticalmente femminili, ma validi anche per il maschile, come la guardia giurata, la spia al servizio della potenza straniera, la sentinella, la guida turistica, nonché i nomi grammaticalmente maschili ma validi anche o solo per il femminile, come il membro e il soprano (ma è accettabile anche la soprano).

Discriminazione indiretta e rimozione degli effetti da parte dell’azienda

Una sentenza del Tribunale di Bologna fornisce qualche utile spunto per orientarsi sulla condotta discriminatoria e la rimozione dei suoi effetti.

Un’azienda del settore della logistica aveva modificato gli orari di lavoro da turno unico 8.30-17.30 a doppio turno 6.00-14.00 e 14.00-22.00

Le lavoratrici madri, lamentando l’impossibilità di conciliare tali orari con l’accudimento dei figli piccoli, avevano segnalato la necessità di trovare soluzioni conciliative e di fronte al rifiuto dell’azienda avevano proposto ricorso per far accertare la natura discriminatoria.

Nel presentare le proprie ragioni l’azienda sottolineava due aspetti a suo parere dirimenti.

In primo luogo la modifica dell’orario di lavoro rispondeva a imprescindibili esigenze organizzative, ovvero sia adattare l’attività ai nuovi e ridotti spazi del magazzino dell’appaltante sia adattare l’orario alla tipologia di attività di filiera, in quanto le altre aziende coinvolte nell’appalto lavoravano in concatenazione oraria dalle 6.00 alle 22.00 e in stretta collaborazione l’una con l’altra.

In secondo luogo l’azienda aveva offerto una serie di azioni positive e compensative per mitigare gli effetti negativi a carico delle lavoratrici madri.

Il Giudice è però di diverso avviso, innanzitutto rileva che l’imposizione di un orario su doppio turno a tutti i dipendenti non è strettamente necessario per il conseguimento delle finalità perseguite.

In secondo luogo le misure correttive adottate dall’azienda non sono idonee a ridurre significativamente la condizione di particolare svantaggio che grava sulle lavoratrici madri, infatti consentono l’assegnazione a un turno unico centrale solo in presenza di figli al di sotto di un anno di età.

Le condizioni sono così stringenti da vanificare di fatto la deroga apparentemente concessa.

Il giudice quindi ordina all’azienda la cessazione del comportamento pregiudizievole e l’assegnazione delle lavoratrici madri con figli fino a 12 anni a un turno centrale o altro orario concordato in forme compatibili con la funzionalità aziendale.

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Esonero contributivo per le lavoratrici madri dopo il congedo di maternità

Con circolare 102/2022 l’Inps ha fornito chiarimenti circa l’esonero dal versamento dei contributi previdenziali a carico delle lavoratrici madri a decorrere dal rientro nel posto di lavoro dopo il congedo di maternità.

L’esonero è riconosciuto esclusivamente sulla quota di contributi a carico delle lavoratrici dipendenti e non sulla quota a carico dell’azienda; inoltre, e molto importante, l’applicazione dell’esonero lascia comunque ferma l’aliquota di computo delle prestazioni pensionistiche: le lavoratrici non subiranno quindi decurtazioni sulla futura pensione percepita.

L’esonero ha una durata complessiva pari a 12 mesi dalla data del rientro al lavoro dopo il congedo di maternità e consiste in una riduzione del 50% della contribuzione previdenziale dovuta dalla dipendente.

L’agevolazione si applica a tutti i rapporti di lavoro dipendente – sia già in essere sia futuri – del settore privato, incluso il settore agricolo: è infatti necessario che il datore di lavoro sia privato ma può non essere imprenditore. 

E’ invece del tutto escluso l’esonero nei confronti delle lavoratrici dipendenti della pubblica amministrazione.

Quanto alla tipologia di contratti ai quali si applica l’agevolazione, sono inclusi: i contratti a tempo indeterminato, determinato, part-time, qualsiasi tipologia di apprendistato, lavoro domestico, lavoro intermittente, assunzioni a scopo di somministrazione – data la loro equiparazione ai rapporti di lavoro subordinato – e, infine, l’esonero si applica anche ai rapporti di lavoro instaurati in attuazione del vincolo associativo con una cooperativa di lavoro. 

La circolare specifica inoltre che, sebbene sia indispensabile per il riconoscimento dell’agevolazione che la lavoratrice abbia fruito del congedo obbligatorio di maternità, essa si applica anche qualora la lavoratrice abbia prolungato l’astensione dal lavoro in virtù del congedo facoltativo o del provvedimento di interdizione post partum.

E’ però indispensabile, trattandosi di una misura sperimentale, che in ogni caso il rientro al lavoro avvenga entro il 31 dicembre 2022.

Infine la circolare precisa che l’esonero contributivo in questione è cumulabile con gli altri esoneri contributivi previsti a legislazione vigente e relativi alla contribuzione dovuta dal datore di lavoro.

Operativamente sarà il datore di lavoro a richiedere all’Inps, per conto della lavoratrice interessata, l’applicazione dell’esonero contributivo. 

Licenziamento di una persona con disabilità e discriminazione indiretta

A seguito del superamento dei 180 giorni di assenza per malattia, un’azienda aveva licenziato una dipendente per giusta causa e confermato tale scelta sebbene, dopo il licenziamento, avesse saputo dalla dipendente che le assenze erano dovute a una patologia cronica, di lunga durata e con indispensabili cure, ripetute e invalidanti.

Il tribunale di Milano ha stabilito la natura discriminatoria del licenziamento riconoscendo il trattamento deteriore riservato alla lavoratrice per effetto della sua appartenenza alla categoria protetta delle persone con disabilità.

Riprendendo la giurisprudenza dello stesso Tribunale, il Giudice ha  riconosciuto la condizione di invalidità/disabilità per l’esistenza di un’effettiva minorazione fisica e indipendentemente dal riconoscimento formale dato dai competenti Enti Previdenziali.

Secondo le indicazioni della Corte di Giustizia, infatti, perché una limitazione possa rientrare nella nozione di disabilità deve essere probabile che sia di lunga durata e che abbia l’attitudine a ostacolare la vita professionale per un lungo periodo, circostanze adeguatamente provate dalla lavoratrice nel caso in esame.

Inoltre nelle assenze per malattia, che non devono superare i 180 giorni, non rientrano le assenze per malattia connesse alla specifica condizione di disabilità; farle rientrare nel periodo di comporto infatti costituirebbe una discriminazione indiretta che metterebbe le persone con disabilità in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone.

Infatti i lavoratori con disabilità sono portatori di uno specifico fattore di rischio che ha quale ricaduta più tipica quella di determinare la necessità per il lavoratore sia di assentarsi più spesso per malattia sia di ricorrere, in via definitiva o per un protratto periodo di tempo, a cure specifiche e/o periodiche.

Il licenziamento di un dirigente in occasione di una lettera di critica

La Corte di Cassazione, in una sentenza di ottobre 2021, ha affrontato la questione della legittimità del licenziamento di un dirigente.

In particolare nel caso in esame l’azienda aveva licenziato il dirigente a seguito di una sola missiva in cui il lavoratore contestava alla datrice di lavoro di aver tradito la sua fiducia e buona fede ed esprimeva dubbi sulla possibilità di riuscire a sopportare ancora un comportamento che giudicava inqualificabile.

Secondo il dirigente la giustificatezza del licenziamento non poteva essere integrata da un solo episodio di intemperanza.

Di diverso avviso invece la Corte di Cassazione che ricorda come ai fini della giustificatezza del licenziamento del dirigente non è necessaria una analitica verifica di specifiche condizioni ma è sufficiente una valutazione globale che escluda l’arbitrarietà del recesso in quanto intimato per circostanze idonee a turbare il rapporto fiduciario con il lavoratore.

Nel caso in esame la Cassazione ritiene che si possa escludere del tutto l’arbitrarietà per la rilevanza del fatto contestato in termini di turbamento del vincolo fiduciario, tanto più intenso quanto più elevato il ruolo dirigenziale del dipendente.

La lettera di critica, facendo venir meno il rapporto fiduciario, costituisce quindi una giusta causa di licenziamento del dirigente.

Mobbing e personalità fragile del lavoratore

La Corte di Cassazione, in una sentenza del novembre 2021, ha affrontato una questione molto rilevante in tema di mobbing, ovvero la circostanza della personalità particolarmente fragile della vittima.

Nel giudizio di appello era stata accertata la responsabilità per mobbing, con conseguente condanna a risarcire il danno biologico e morale, a carico dell’azienda e di un dirigente, autore materiale di condotte reiterate e palesemente volte a sminuire e declassare la personalità del lavoratore, sia all’interno che all’esterno del contesto lavorativo, tanto da renderlo per quest’ultimo intollerabile e provocarne, come avvenuto, l’allontanamento.

Nel ricorso in Cassazione il dirigente ha esposto che, come evidenziato dal CTU, il lavoratore era caratterizzato da un disturbo di base di tipo ‘dipendente’ con tratti ‘evitanti’, e ciò aveva contribuito a renderlo strutturalmente fragile e più vulnerabile a eventi stressanti.

La personalità particolarmente fragile del lavoratore, si sosteneva, era una concausa che dovrebbe escludere o ridurre la responsabilità per mobbing.

Per la Corte di Cassazione tale affermazione è del tutto infondata; infatti, per consolidata giurisprudenza, in caso di concorso tra causalità umana e concausa naturale il responsabile dell’illecito risponde per l’intero.

Nell’ipotesi quindi in cui la persona danneggiata sia, per la propria condizione soggettiva, più vulnerabile di altri soggetti della stessa età e genere, tale circostanza non incide né sul nesso di causa, né sulla attribuzione della colpa e nemmeno sulla liquidazione del danno.

Premio di produzione e assenza per maternità e paternità

Il Tribunale di Asti, con sentenza 536/2020, ha deliberato in merito a un caso di discriminazione legata ad assenze per paternità.

Nel caso in esame un lavoratore aveva usufruito del congedo parentale per un totale di sessanta giorni nel corso dell’anno; nello stesso anno non aveva effettuato alcuna altra assenza.

Ciò nonostante aveva subito, proprio in ragione dell’assenza dovuta per congedo parentale, una decurtazione del premio di risultato previsto dall’accordo aziendale.

In particolare aveva ricevuto circa un terzo del premio percepito da colleghi con stesso inquadramento contrattuale e in mancanza di assenze.

Il lavoratore aveva quindi fatto ricorso contro la natura discriminatoria dell’accordo aziendale in ragione dello status di genitore.

Secondo l’azienda tale circostanza non ravvisa una discriminazione di genere poiché l’accordo aziendale prevede la stessa disciplina in materia di assenze per congedi parentali per i lavoratori e le lavoratrici; inoltre l’azienda ha sottolineato la coerenza dell’accordo aziendale su questo punto poiché l’istituto ‘premio di risultato’ è necessariamente collegato alla presenza al lavoro e al conseguente apporto fornito alla realizzazione degli accordi aziendali.

Secondo il Giudice tale tesi non può essere accolta poiché il legislatore ha apportato alcune modifiche rispetto all’impianto originario del codice delle pari opportunità che prevedeva in effetti il divieto della discriminazione di genere.

In particolare all’art. 25, sotto la rubrica ‘Discriminazione diretta e indiretta’ è stato aggiunto il comma 2 bis che recita: ‘costituisce discriminazione, ai sensi del presente titolo, ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza, nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio di tali diritti’

A parere del Giudice il datore di lavoro ha prospettato una discriminazione diretta in danno del genitore, poiché il meccanismo di riduzione del premio colpisce direttamente i lavoratori che fruiscono dei congedi parentali.

Inoltre tale meccanismo colpisce proprio le assenze per congedi parentali – e quindi i genitori – e non altre tipologie di assenze altrettanto giustificate, come le assenze per legge 104, permessi sindacali, permessi per donazione di sangue, etc.

Il Giudice ha quindi dichiarato la natura discriminatoria dell’accordo sindacale nella parte in cui indica le assenze per maternità e paternità facoltative quale cause legittimanti la riduzione del premio di risultato e ha ordinato la cessazione della condotta con rimozione degli effetti.